prima parte

IL MIO PRIMO TERZO TEMPO

Ero alto, ma non avevo mai pensato al basket.

Poi un amico aveva bisogno di un complice

Folli allenamenti per un’improbabile partita.

Fino a quel tiro libero a un passo dal bivio

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L’imponente edificio della scuola gesuitica Leone XIII (si pronuncia “decimoterzo, non tredicesimo”: distinzione essenziale per gli insiders), all’altezza dell’inverno 1968, è un lungo fabbricato che s’infila dritto in via Vincenzo Monti e che dall’altra parte s’acciambella in forma circolare. Un colosso di mattoni rossi, abbarbicato attorno a due campi da pallacanestro in cemento all’aperto, traversati da frettolose tonache nere. E’ la dentro che ho cominciato per caso a giocare a pallacanestro, conseguenza elementare del fatto che fossi indecentemente alto per i miei 13 anni, che a calcio facessi pietà e che avessi fatto lega con un ragazzo taciturno, occhialuto e foruncoloso della mia classe, Livio Osella. Lui, quanto a canestri, era un bel po’ più avanti di me. Sebbene più basso e mingherlino rispetto allo strano fisico che io stavo sviluppando, di basket già sapeva parecchio, frequentava le partite di serie A al Palalido, leggeva le riviste specializzate, aveva nozione di cosa fosse l’America e di come quello sport laggiù fosse asceso allo stato dell’arte. Livio era il prototipo dei migliori ragazzi milanesi dell’epoca. Sommessa riservatezza, il principio chiaro che in quella scuola si era spediti per apprendere un’attitudine – la stessa dei padri – che precludeva a responsabilità di comando. Forse anche per questo i rapporti tra noi ragazzi erano lievi e svogliati, come se il rientro in famiglia fosse la cosa principale di ogni giornata. Era raro che ci s’incontrasse fuori dall’orario delle lezioni, tutto al più per qualche compleanno festeggiato in modo formale, tra i colori smorti e i kilt indossati dalle meravigliose sorelle.

Livio conosceva bene i rudimenti di quel gioco, si muoveva con leggiadria sul campo, tirava con la giusta impostazione, era già un giocatorino formato, seppure timido. Però era molto solo nella sua passione e tutto cominciò proprio perché lui cercava un complice per dar forma alla sua ambizione: mettere su una squadretta vera nella scuola dov’eravamo confinati tutti i giorni fino alle 5 e mezzo, quando la città era già buia, si traversava il freddo per andare a casa ed era già quasi ora di cena. Per curiosità e per noia, accettai la proposta di Osella di fermarmi qualche pomeriggio, dopo la fine delle lezioni e col permesso dei “padri”, a farmi istruire sui fondamentali della pallacanestro, occasione che secondo lui non potevo perdere, dal momento che sbarcando tra i teenagers già sfioravo i 190 centrimetri. Doveva essere gennaio. Faceva scuro, ancora avanzavano un paio di lezioni del ciclo pomeridiano e tanti in classe s’appisolavano sul banco. Livio e io non dicevamo niente a compagni e professori. Aspettavamo che se ne andassero, ci cambiavamo nel corridoio sotterraneo che fungeva da spogliatoio e prima delle sei eravamo sul campo più nascosto della scuola, illuminato a malapena dai lampioni e circondato dallo scuro colonnato coi muri rossi. Si era nel cuore migliore di Milano, in un’isola della formazione. Quel cortile era protettivo e l’idea d’averci costruito al centro, non un altare, ma un campo da pallacanestro m’appare oggi la conferma che la vocazione educativa dei gesuiti sia più d’una missione, una vera ispirazione.

La sessione di lavoro, che facevamo soltanto io e Livio – lui vestito coi colori sociali del Leone XIII (arancione e nero), io più rabberciato, maglietta a maniche corte, sopra un golf per sopportare i rigori dell’inverno, scarpe certamente Superga – era di una serietà impressionante. Restavamo sul campo per un paio d’ore, prima dedicandoci a esercizi basilari che sopportavo con insofferenza. Poi ci sfidavamo uno contro uno, e lui lì, in linea di massima, mi ridicolizzava, perché era più bravo e dotato d’un ottimo tiro, anche se presto ne scoprii i punti deboli, che ruotavano attorno alla sua timidezza, al fatto che, se aggredito, non reagiva bene. In un certo senso sembrava orgoglioso di me. Come giocatore crescevo più rozzo di lui, ma avevo la consapevolezza d’esprimere un corpo eccessivo, mentre lui era minuto, normale, in un certo senso incongruo per quel gioco. Talvolta coglievo il suo sguardo nervoso che mi studiava, allorché riuscivo a sfuggire alla sua guardia e andavo su, in terzi tempi coronati da successo. D’un tratto poi era disperatamente tardi, l’orologio sfiorava le sette e mezzo, si entrava in zona pericolo quanto alle rampogne dei genitori, ancora coi resti del sudore che stazionavano sulla fronte.

Quei pomeriggi interminabili di gennaio, febbraio e marzo furono magnifici. Lì appresi il gioco che avrei amato per il resto della vita e tutto avveniva in quella cornice appartata, col rimbombo di Milano sullo sfondo, traffico, clacson, le sirene delle fabbriche, perché l’Alfa non era lontana e certi giorni si sentiva l’urlo elettrico che precludeva al cambio turno. I cerimoniali tra me e Livio, due silenziosi introversi, erano ridotti al minimo. Parlavamo poco e solo di cose di gioco. Non ci incontrammo mai fuori dal rettangolo del campo. Era là che per noi aveva senso vedersi, perfino se pioveva e noi, tacitamente, non ce ne davamo per inteso, troppo presi dalla nobile occupazione per preoccuparci dell’acqua gelata, e andavamo avanti, fin quando qualche prete, vedendoci, dava l’ordine perentorio: “Ma che fate? Andate a cambiarvi”.

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Le cose cambiarono allorché la primavera s’affacciò su via Vincenzo Monti. Credo che all’origine della novità ci fosse ancora lui, Osella, che perseguiva con ostinazione le proprie passioni. Di fatto un bel giorno io, Livio, e un paio d’altri ragazzi che s’erano sporadicamente aggregati alle nostre serate tra la nebbia, venimmo convocati nientemeno che da Toni Cappellari, l’allenatore della squadra “vera” del Leone XIII, quella dei grandi. Il coach ci disse che l’idea di rimettere in piedi l’attività giovanile gli era stata commissionata dalla gerarchia ecclesiastica della scuola e che lui, seppure non provando particolare vocazione per gli sbarbatelli, s’era reso disponibile. Ci dette appuntamento per qualche sera dopo nella palestra del Leone, quella nuova, situata nel fabbricato della piscina, al piano superiore. Fu in quell’occasione che io e Livio conoscemmo i compagni della nascente squadra, ragazzi della nostra età, ma di altre sezioni e coi quali avevamo pochissima familiarità. In capo a un paio d’allenamenti, comunque, capimmo d’essere senza dubbio noi due i migliori della squadra, invincibili guardiani di quel gioco dentro quelle mura. Ben altro effetto invece ci fece l’essere allenati da un allenatore vero, con quel suo atteggiamento controvoglia, dal momento che era palese che di talento la nuova squadretta ne avesse pochissimo. Io però ormai ero immerso nel canestro fino al collo. Adesso i “Giganti del Basket” erano il mio appuntamento fisso in edicola, nonché le colonnine sul Gazzetta e le telecronache di Giordani, la domenica pomeriggio sulla Rai. Io, che ero convinto di non poter fare niente oltre la mediocrità, abulico e tristanzuolo, d’improvviso mi vedevo svelare una vocazione inattesa e ne godevo ogni volta che depositavo la palla a canestro. Fu in capo a qualche settimana di allenamenti, quando maggio era alle porte e già le sere trascorse nel silenzio punteggiato di palleggi assieme al caro Livio già sembravano lontane, che il coach Cappellari ci radunò per darci l’annuncio elettrizzante. Ci disse che, per quanto lui – appena ventenne, a sua volta transitato per il Leone XIII, occhialuto e scostante forse per censo – non fosse mica convinto che la nostra masnada potesse presentarsi in pubblico vestendo i colori del Leone, per volontà della direzione s’era deciso di organizzare una partita nel sabato successivo, che avrebbe costituito anche l’occasione per inaugurare quello spazio magnifico, col campo rosso-arancione, tre o quattro file di spalti verdi e su, in alto sul soffitto, delle luci tonde che non avevano niente da invidiare a quelle della serie A. Sarebbe stato un pomeriggio importante, con la partecipazione del vescovo di Milano per benedire l’impianto e in tribuna genitori, ex alunni e ospiti di riguardo. Per l’occasione s’era scelto un avversario particolare, selezionato col gusto raffinato dei gesuiti: avremmo giocato contro la Scuola Americana, il che avrebbe dato un sapore internazionale all’evento, lasciando presupporre che noi, prima che giocatori, eravamo allievi d’una scuola d’élite. Senza dimenticare che del basket l’America era la culla, e giocare con questi ragazzini sarebbe stato come mettersi al confronto col meglio – altro principio basilare dell’educazione gesuitica. Con la speranza, concluse il coach, che non ne prendiate troppe. Doveva essere un martedì. I giorni successivi io li trascorsi in stato d’eccitazione. Assieme a Livio raddoppiavamo gli allenamenti, tornando a incontrarci in cortile, anche se adesso avveniva alla luce del sole, il che, in fondo, rendeva tutto assai meno esoterico. A casa provavo e riprovavo i movimenti, con una palla di carta nella mia stanza, tirando in un immaginario canestro collocato sopra l’armadio. E i miei mi studiavano. Erano convinti che io fossi un incostante, facile alle passioni e altrettanto superficiale nell’abbandonarle. Ma in quello stato non m’avevano visto mai e neppure m’avevano mai visto giocare e quindi non sospettavano ciò che io in cuor mio ormai sapevo: ero bravino, forse con un qualche futuro davanti.

E ancora non avevo idea di quali sorprese avrebbero portato le prossime ore. La prima fu una brutta notizia: Livio, il mio mentore, a un giorno dalla partita cadde vittima della sua salute cagionevole, con un febbrone che non lasciava spazio alle speranze. Facendo un’eccezione alla nostra regola di monastico silenzio, arrivammo a sentirci per telefono. Ero dispiaciuto perché sapevo quanto la sua regia sul campo sarebbe stata utile a tenere a galla una scialuppa destinata a naufragare. Ma lui rispose con rassegnazione che non c’era niente da fare. Seppure fosse sfebbrato per il giorno dopo, i suoi severi genitori non gli avrebbero permesso di giocare. Perciò mi fece delle raccomandazioni e me le fece bene, con la voce del vero amico. Mi disse che, per evitare la figuraccia alla nostra scuola, mi dovevo caricare sulle spalle lo scalcagnato quintetto arancione, mostran- domi mansueto col coach, ma poi prendendo tutte le iniziative necessarie a togliergli le castagne dal fuoco.

La seconda sorpresa poi arrivò all’ora di pranzo del sabato che precedeva la partita. Io ero nervoso come una debuttante, a mangiare non ci pensavo, rimuginavo sull’assenza di Livio e sulla scarsa confidenza con quel coach troppo altero. La mazzata ce la mise mio padre, che mi comunicò che lui e la mamma alla partita non avrebbero potuto presenziare, per via di un qualche impegno. La cosa, certo, mi sgravava dalla preoccupazione di non fare bella figura, ma metteva fine anche al mio desiderio di mostrare ciò che avevo imparato, attraverso quel misterioso procedimento da autodidatta. Io già sentivo che quel pomeriggio sarebbe stato speciale e volevo loro ci fossero,per esserne testimoni. Così un po’ mogio arrivai alla palestra all’ora della partita. Avevo freddo quel pomeriggio, mentre sull’attenti, maglietta arancio con bordi neri e scritta “Leone XIII”, assistevo alla benedizione e non prestavo attenzione alle parole dei prelati. Con gli occhi, invece, mi bevevo la magnifica rappresentazione della quale ero parte e che mi rendeva incredibilmente felice. Guardavo gli spalti affollati, le belle mamme, i padri distinti, i volti forestieri con stentoree voci americane. Spiavo i nostri avversari in maglia bianca e blu, tutti di carnagione chiarissima, capelli corti, facce angeliche e diaboliche al tempo stesso, un profluvio di ciuffi rossi e un sacco di centimetri più di noi. Tutto bellissimo. Se solo avessi smesso di avere quel gelo nervoso giù per la schiena.

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La partita fu uno spettacolo indecente, se non che si trattava solo di un’elegante esibizione di adolescenti, in una modernistica cornice e all’ora del tè. Di fatto i ragazzi americani si dimostrarono più scarsi di quanto prevedessimo. Giocavano ordinati e diligenti fino al momento di concludere, ma lì si perdevano, si emozionavano, discutevano tra loro mentre rientravano in difesa ed era il nostro turno di esibire la nostra pochezza. Il coach sembrava vergognarsi di noi, osservava il gioco con espressione di disgusto, di tanto in tanto riservava al sottoscritto un bercio di rimprovero. Eppure ero io l’unica freccia al suo arco, occupandomi di tenere il punteggio in linea di galleggiamento. Sudavo, correvo, tiravo giù un rimbalzo, m’improvvisavo regista, cercavo di dare un senso al gioco stolto della nostra rappresentativa. E così si arrivò a pochi secondi dalla fine col punteggio d’anteguerra di 15 a 13 in favore dei fanciulli americani, che cincischiavano al bordo della nostra area. Uno di noi riuscì a intercettare un passaggio, fece un paio di passi e lanciò la palla nella mia direzione. Io la presi, palleggiai e poi partii per il terzo tempo che avrebbe miracolosamente raddrizzato l’esito dell’incontro. Come prevedibile, ero ancora in volo che un paio d’avversari mi franarono addosso. Fallo. Due tiri liberi. Scese il silenzio nella palestra. Il pubblico che aveva seguito a intermittenza l’acerbo spettacolo dei ragazzini, realizzò la drammaticità del momento. Io ero travolto dalla responsabilità, per non dire della spossatezza che mi mordeva le caviglie. Mi presentai sotto ipnosi alla linea di tiro libero. Solo cinque mesi prima quel gioco m’era ignoto e adesso mi ritrovavo con quella maglia, quelle luci, quel pubblico, quei tiri da segnare. Ci fosse stato Livio, sarebbe stato il suo momento. Lui i tiri liberi li segnava automaticamente, con movimento flessuoso. Io, anche in questo fondamentale, m’affidavo all’estro del momento e, in circostanze del genere, io per primo non contavo su me stesso.

L’arbitro mi dà la palla. Tiro. Dentro. Applauso. Il coach grida qualcosa. Comincio a tremare. Devo avere una faccia da funerale. Lo so che il prossimo lo sbaglierò e che il punteggio resterà quello stupido 15 a14. L’arbitro mi dà la palla. Silenzio spettrale. Le luci più forti che mai. Tiro. Sbaglio. Gli americani prendono il rimbalzo. L’arbitro fischia la fine. Io resto là sulla linea di tiro libero. Festosa invasione di campo. Vado verso la panchina. Sento rumori ovattati. Sono il solito perdente. Mi dispiace, e meno male che mio padre non c’era. Avesse tirato Livio, avrebbe segnato certamente. Il coach mi viene incontro, dice qualcosa. Non rispondo. Resto seduto in panchina. Riprendo fiato. Chi l’avrebbe detto, lo scorso Natale, che prima dell’estate mi sarei trovato tra simili emozioni?

La palestra si svuota. Negli spogliatoi l’atmosfera è tranquilla. Per gli altri questa non era mica una giornata speciale come per me. Chiacchierano, si spruzzano sotto le docce. Io la doccia la faccio in silenzio. Calcolo quanto tempo mi ci vorrà per dimenticare l’errore. Sto male. Esco dagli spogliatoi. Non saluto nessuno. Dribblo il coach, non m’accorgo che mi guarda con un’espressione diversa. Sono quasi fuori, davanti alla porta a vetri che dà sulle scale, quando mi sento chiamare: “Stefano?”. Mi giro. Un signore mi guarda dritto negli occhi, dal basso del suo metro e mezzo, con l’espressione di uno che sa quel che vuole. “Sì”, rispondo. “Ciao. Mi chiamo Beppe Ceresa. Faccio il talent scout per l’Oransoda Cantù, la squadra di serie A che ha aperto una succursale giovanile qui a Milano e l’ha chiamata Lemonsoda. Ti ho visto giocare. Sei acerbo, ma mica male. Vorrei che venissi a trovarci in palestra, per conoscere il nostro allenatore. Ti piacerà”. A malapena capisco quel che dice. Lo guardo, col suo completo carta da zucchero, la cravatta sovradimensionata, la cartella di cuoio sotto il braccio, l’aria baldanzosa. Mica mi piace granché, ma quel che dice è un sogno. Ho giocato un’unica, disgraziata partita con la mia scuola, penso d’aver fatto discretamente schifo e adesso mi offro- no di giocare nelle giovanili di uno dei club più famosi d’Italia? Sto sognando? Riesco a rispondere: “Mi piacerebbe… ma non so…”. Lui stringe l’assedio: “Hai già parlato con qualcun altro?”. Rispondo di no, che gioco da poco. “Bene”, fa Ceresa. “Trovati domani alle 6 a piazza del Duomo. Puntuale. Ci conto?”. Dico di sì, dico anche grazie. Lui s’allontana veloce. Il coach si fa sotto e mi dice: “Aspetta a firmare. Potrebbero esserci altre opportunità”. Nemmeno l’ascolto. Non m’immagino d’aver appena fronteggiato il bivio fondamentale della mia strana carriera di giocatore. E di aver imboccato una via venata di giallo, abbandonando quella colorata di rosso. Presto Cappellari farà carriera e approderà nello staff del Simmethal Milano, le mitiche scarpette rosse, la Juventus della pallacanestro. Io quell’opportunità l’ho solo sfiorata, con la cocciutaggine del tredicenne. Ci ripenserò più tardi. E poi negli anni seguenti. Fino a oggi. Quando ancora nei sogni, rimastico quei momenti, quelle parole, quelle emozioni. Fra le più intense d’una vita intera.

(1. continua)

(Stefano Pistolini – Il Foglio)

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