seconda parte

LA MIA PRIMA PARTITONA

I compagni di squadra mi accolgono senza nonnismi, il coach mi schiera senza aspettare, io gioco senza soggezione.

Poi un efficace sermone innesca un meccanismo che inizia subito a ticchettare

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(Stefano Pistolini – Il Foglio)

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Riassunto: Milano, 1968. Il protagonista impara a giocare a pallacanestro da un compagno di scuola. Poi, al termine della prima partita, riceve un insperato invito a unirsi a una squadra ben più seria.

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L’Oransoda Cantù quell’anno era sulla bocca di tutti gli appassionati. Sconvolgendo le gerarchie del basket, stava mettendo sotto Milano e Varese, le due corazzate del campionato, e si stava avviando a vincere il titolo grazie a un grande americano come Burgess e poi a Carletto Recalcati (il saggio che oggi guida la nostra Nazionale) e al lungo barbuto Merlati. Era un concetto nuovo quello di una squadra di paese capace di conquistare la ribalta nazionale, un qualcosa che evocava l’efficienza dell’organizzazione ispirata ai grandi college americani di provincia. E dunque entrare a far parte di quell’organizzazione era un’occasione eccezionale. Beppe Ceresa, il mio pigmalione, aveva il dono della puntualità. Come convenuto, m’attendeva sotto i portici di Piazza del Duomo, per accompagnarmi all’allenamento del Lemonsoda Basket, che sarebbe stata la mia nuova squadra. Io arrivai trafelato, ma lui mi salutò con un sorrisetto di compiacimento. Ormai non doveva far altro che consegnarmi al coach. Non che la faccenda si svolgesse sotto i crismi del lusso sfrenato: traversammo la piazza e sotto l’Arengario ci mettemmo ad aspettare il tram numero 18. Una volta sopra io mi spalmai contro un finestrino e lui si afferrò a una maniglia, quasi in punta di piedi ma senza imbarazzo, continuando a parlarmi senza interruzioni. Mi spiegò che il Lemonsoda era il tentativo, da parte di una società dinamica come Cantù, di contrastare i potentati del basket, i club delle metropoli, espandendo il proprio già florido vivaio e aprendo una dependance milanese di quelle squadre giovanili canturine che già facevano faville nei campionati di categoria. E, guarda caso, la Lemonsoda era stata la sorpresa di stagione nel campionato allievi, aggiudicandosi al debutto il girone provinciale e ora in procinto di disputare le finali regionali. “E’ una squadra fantastica, vedrai”, mi disse mentre il tram imboccava Corso XXII Marzo facendosi largo nel traffico, “e il coach è una persona eccezionale”. In sostanza, mi disse ancora, io ero un rinforzo in vista del rush di stagione, poi l’anno successivo tutto sarebbe stato rimesso in discussione perché, e qui assunse un tono misterioso, “c’erano società di primo piano pronte a rilevare tutta la baracca”, sussurrò mentre il tram imboccava lo scambio di Piazza della Libertà. A Milano la Lemonsoda aveva affittato l’impianto di un vecchio oratorio della zona est, in via Massimiliano Kolbe, in fondo a viale Corsica. Ci arrivammo che scendeva la sera e io calcolai che da casa a là c’impiegavo un’ora ad andare e altrettanto a tornare, tra piedi, metropolitana e tram. Moltiplicato per tre allenamenti, facevano sei ore alla settimana, trascorse nei solitari spostamenti di cui ancora non avevo scoperto il fascino, ma che, col passare del tempo, sarebbero divenuti un mio vizio privato, un modo di osservare la gente, studiare i comportamenti, scoprire angoli e rituali della città che fino a quel momento m’erano rimasti sconosciuti. Percorremmo via Kolbe, una strada dritta e scura. Sulla destra un cancello e una porta conducevano alla palestra. Seguii Ceresa e, una volta dentro, abbacinato dalle luci forti del campo, me ne restai in piedi da solo sotto un canestro, mentre lui partì a cercare il coach. L’impressione fu fantastica. La palestra era più malconcia del futuribile impianto del Leone XIII, ma aveva infinitamente più fascino, già a cominciare dall’odore che emanava, il crisma del posto vero, dove si giocava la pallacanestro autentica, su un parquet consumato di legno giallo intenso, con tutto lo spazio riem pito dal campo e i muri a pochi centimetri dai canestri. Il suono delle voci che il soffitto alto trasformava in echi cavernosi, il ritmico scandire dei tonfi dei palloni sul parquet: tutto ciò sarebbe divenuto la colonna sonora dei miei anni a venire.

Beppe Ceresa si ripresentò col coach Angeretti, un uomo alto e magro, dai lineamenti duri, la mascella squadrata, gli occhiali con la grossa montatura nera. Era un burbero che difficilmente concedeva un complimento ai suoi giocatori, sempre pronto al rimprovero, all’invito a dare di più, che spesso accompagnava battendo velocemente le mani. Sembrava un senza cuore, ma naturalmente per i suoi era pronto a buttarsi nel fuoco e, in piena partita, lui di partita ne giocava un’altra, in polemica con gli arbitri, tutto preso a proteggere i giocatori, perso in un monologo interiore mentre passeggiava davanti alla sua panchina. “Ti aspettavamo”, mi disse con un sorriso che non andava oltre una piccola piega all’angolo della bocca. “Vatti a cambiare, così conosci i compagni”. Io annuii, in soggezione davanti al personaggio autoritario con cui avevo appena fatto conoscenza e che sarebbe diventato per me un vero maestro. In questi giorni ho scoperto che coach Angeretti è ancora in attività, nella zona di Treviglio. E’ stata una bella sorpresa, a quasi quarant’anni dai fatti che racconto. Significa che quest’uomo ha devoluto di gran lunga il meglio della sua vita a un’attività strana e appassionante come allenare ragazzi che vanno su e giù per un campo da pallacanestro. Io, intanto, intimorito imboccai il corridoio che conduceva agli spogliatoi, in direzione della luce che proveniva da una stanza in fondo, da cui arrivava anche un gran vociare. Spalancai la porta e mi trovai davanti una decina di ragazzi più o meno nudi, o con indosso quei buffi sospensori che s’usavano per proteggere le parti intime da quelle gomitate che sono pane quotidiano del basket. Tutti si voltarono e io dissi la prima cosa che mi venne in mente: “Salve. Devo cambiarmi per l’allenamento”. Ancora non lo sapevo, ma quella congrega di ragazzini che mi stava scrutando era una delle più riuscite alchimie che abbia mai incontrato. Basti dire che a nessuno venne in mente di far scattare il meccanismo odioso del nonnismo, spesso parte integrante dei rituali sportivi. Nessuno si mostrò infastidito dal mio arrivo. Invece uno mi venne incontro col sorriso stampato in faccia. “Ciao – disse – sapevamo che arrivavi. Mi chiamo Guido”. Di cognome faceva Amoroso, era il playmaker titolare, una bella faccia da figlio del sud, capelli neri e lisci, lunghi dietro ma già stempiati sul davanti, grandi basette, un aria da uomo più grande dei suoi tredici anni, un’ombra di barba e il fisico ben formato e muscoloso. Avrei scoperto che era il leader naturale della squadra, per la saggezza e la bonomia, sostenuta da una voce profonda e dagli occhi guizzanti. In campo era un esempio di stile, coi suoi movimenti fluidi, la capacità di sfuggire alla marcatura, la lettura intelligente del gioco. Era un vero capitano e un uomo forte e buono e tale fu con me, quel giorno, allorché s’incaricò di presentarmi gli altri, seguendo una silenziosa gerarchia. Il primo era Tiziano, che come lui non era troppo alto (arrivavano a malapena al metro e 80) ma fisicamente era agli antipodi: magrissimo, tanti capelli corti, ricci e neri sulla testa, l’espressione vispa (un sosia di Pippo Inzaghi) il fisico nervoso, la predisposizione alla velocità. Come Guido, anche Tiziano era un figlio del sud d’estrazione operaia, ma contrariamente all’altro non aveva nessuna vocazione per la comunicativa, anzi era taciturno, quasi torvo, sempre concentrato sulle questioni del gioco, che per lui era l’unica cosa che contava. Dal punto di vista agonistico Tiziano era l’arma segreta della squadra. Dal ruolo di guardia metteva a profitto un tiro micidiale, che lo rendeva capace di sequenze di centri straordinari che tramortivano gli avversari. Per il resto, in campo se ne stava sulle sue, un vero solista, un killer del canestro che, libero di colpire, non perdonava. Dalla sera in cui Guido me lo presentò per i successivi tre anni avrei condiviso con lui maglia e squadra. Eppure mai avremmo scambiato più di un saluto distratto, non per antipatia, ma perché non avevamo nulla in comune, e la sincerità adolescenziale c’impediva di fingere. Intanto Guido mi stava introducendo l’altra guardia della squadra, Antonio De Simone. Lui scattò in piedi in modo buffo, comportamento frutto dell’educazione esigente nella sua famiglia proletaria. Antonio era una specie di indio, un Tomas Milian in erba, dall’aria latina, l’espressione allegra, il naso rotto, occhi neri come il carbone, carnagione olivastra, ciuffo scuro. Nonostante non fosse più di un metro e 85 Antonio aveva capacità sensazionali di elevazione e galleggiamento in aria che, ad esempio, lo portavano a schiacciare a canestro con naturalezza, a un’età in cui questo virtuosismo è riservato ai giganti fuori misura. Per il resto era un ragazzo che amava ascoltare, sempre gentile e aveva pochissimo da dire. Era uno del gruppo e gli bastava, fino al momento in cui non c’era da spiccare un salto e andare a cogliere un pallone in paradiso: nessuno gli poteva stare dietro. Intanto, su un’altra panchina dello spogliatoio, aspettavano quieti il loro turno altri due ragazzi, accomunati dal pallore delle loro carnagioni. Il primo attendeva sbracato che gli arrivassi di fronte. Si chiamava Sergio Dell’Anna e da quel giorno sarebbe divenuto il mio migliore amico. Al momento era il più alto della squadra, sul metro e 95, e giocava ala, con uno stile lento, indolente, ma pieno di sorprese, variazioni, trovate inconsuete. Non appena lo misi a fuoco, col ghignetto sfottente sulle labbra, una mano a frugare nelle parti basse e l’altra che faceva il ciao di benvenuto, realizzai che io e lui ci somigliavamo in modo pazzesco, solo che lui versava tutto sui colori chiari e io su quelli scuri. Mia madre, che presto se ne sarebbe anche lei innamorata, chiamava me e Sergio “il positivo e il negativo”, per sottolineare come fossimo identici, anche nella magrezza tutt’altro che scultorea, nell’andatura caracollante e con la testa bassa. Si vedeva subito che Sergio era un caso a sé nella squadra: lui era quello con una vita fuori dal basket, con interessi che non c’entravano coi rimbalzi e i tiri liberi e che avevano a che fare con il rock, la cultura alternativa, la beat generation, i film del nuovo cinema americano, quelli tipo “Il Laureato”. E io volevo essere come lui. Credo che fu questo desiderio di non rinchiuderci nel mondo dello sport, che aveva le sue claustrofobie, gli eccessi d’ansia, le terribili delusioni, a unirci fin dall’inizio. Ci beccammo subito, come due metà di una mela: con lui potevo parlare di Kerouac, del nuovo disco di Neil Young, potevo fantasticare di viaggi in America. Con gli altri, tutto al più si potevano commentare le percentuali di tiro. Di lì in avanti io e Sergio divenimmo inseparabili e proseguimmo insieme, come gemelli, la nostra carriera di giocatori atipici di pallacanestro. Del resto anche in campo lui era il mio dirimpettaio, giocando da ala bassa a sinistra, mentre io, mancino, occupavo la posizione a sinistra, dall’altra parte dell’area. Posizione dove, fino a quel giorno, aveva giocato l’altro ragazzo seduto sulla panca che aspettava con aria mogia il suo turno d’essere presentato. In sostanza io ero stato scelto per occupare in campo il posto che era stato suo e che adesso abbandonava con la prospettiva di finire il campionato seduto in panchina. Si chiamava Alberto Rachelli, cognome che abbinai subito a una pasticceria che frequentavo, dalle parti della scuola. Avevo ragione: lui era proprio il figlio del proprietario del negozio e mi guardava con un’aria scocciata ma non ostile, come volesse dire: “Se davvero sei bravo, accomodati. Ma non potevi andartene in un’altra squadra?”. Alberto del resto, in campo non era un campione. Aveva un gioco esitante ma al tempo stesso narcisista, faceva cose troppo difficili per le sue possibilità e spesso non gli riuscivano. Ma era tutt’altro che un cattivo ragazzo, col suo pelo rosso, la faccia lentigginosa, i movimenti leggermente effeminati. Degli altri presenti in quello spogliatoio, davvero, ricordo poco, ombre che presto non avrei più rivisto. I ragazzi che contavano erano quei cinque e con loro per la prima volta procedetti alla cerimonia della preparazione per l’allenamento, anzi proprio da loro, più veterani di me, imparai i trucchi per proteggermi e non farmi male, come la bendatura dei piedi e delle caviglie e l’utilizzo delle fasce elastiche e delle calze sovrapposte. Pochi minuti più tardi ero sul campo e cominciavo il primo allenamento. Capii presto che coach Angeretti apprezzava il mio modo di giocare ruvido. Col mio arrivo poteva perfezionare la strategia offensiva che aveva in mente per giocarsi il finale di campionato. In pratica io e Sergio dovevamo fungere da pesci pulitori di tutto ciò che delle iniziative di tiro di Guido e Tiziano non andasse a buon fine. Con l’aiuto di Antonio si trattava di guadagnare rimbalzi offensivi e trasformarli in canestri, o in nuove azioni. In difesa, poi, Angeretti pretendeva abnegazione assoluta, unica tattica che portava buoni frutti, per una squadra fisicamente non esplosiva come la nostra. Si trattava di soffocare l’avversario in marcatura, stringerlo, pressarlo fino a provocarne la perdita di qualità nel gioco. Su questo Angeretti era ossessivo: e in quegli allenamenti diventai io il suo centro d’interesse, nel tentativo di amalgamarmi al gioco di sacrificio che gli altri ragazzi avevano assimilato. E apprendevo in fretta, perché la domenica, nello spogliatoio del campo dove ci giocavamo il quarto di finale dei regionali, il coach chiamò il mio nome nel quintetto di partenza, nel ruolo di ala alta.

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La partita era tutt’altro che facile. Di fronte avevamo i bianchi della Canottieri, un club borghese che aveva solida tradizione di tennis, nuoto e basket. Il loro gioco era diverso dal nostro: disciplinato, costante, interpretato con imperturbabilità da ragazzi efebici e dalle movenze eleganti. L’inizio partita fu difficile, perché noi eravano nervosi, per me era la prima volta, certi automatismi non funzionavano. Il coach passeggiava lanciando indicazioni e terribili richiami all’osservanza del piano di gioco, ma noi si sbagliava più del dovuto e passando davanti alla panchina, vedevo la faccia corrucciata di Ceresa che mi teneva d’occhio con l’aria di dire: “Ehi, non tradirmi. Sei una mia creatura”. Poi d’improvviso, vicino alla fine del primo tempo, le cose girarono. Bastarono un paio di tiri infilati di seguito da Tiziano e la squadra magicamente andò a regime. Di colpo ci trovavamo a occhi chiusi, e per me fu come se avessi giocato da sempre con quei ragazzi che conoscevo da pochi giorni. Dimenticai d’essere un novellino e ogni volta che tagliavo sotto canestro Guido mi recapitava la palla e io la buttavo dentro. L’incanto durò fino alla fine e quelli della Canottieri non ci ripresero più e finì con una vittoria comoda, che permise al coach di far giocare qualche minuto anche Rachelli, per annacquare la sua delusione. Quando fu il mio turno di rientrare in panchina, il coach mi dette una pacca sul sedere, i compagni fecero la faccia di circostanza e Ceresa mi scompigliò i capelli. Era andata, e io ero felice. Per la prima volta da quando ero a Milano, trapiantato a forza da quella Roma che nel ’68 sembrava su un altro continente, mi sentivo a mio agio, con qualcosa d’importante da fare. La pallacanestro in pochi mesi aveva occupato ogni interstizio della mia immaginazione e dei miei ritmi. L’incontro con quei ragazzi speciali, l’armonia e la solennità che regnavano in quella squadra e l’enorme aspettativa per la corsa eccezionale che quella formazione allievi stava realizzando, costruivano finalmente uno scenario luminoso nel quale sguinzagliare i pensieri, che in quella città e in quell’età particolare, avevo sempre lasciato svoltare verso il buio.

Il momento clou arrivò quando il coach, alla fine dell’allenamento del mercoledì ci riunì a centro campo e ci disse di sedere per terra perché aveva da parlarci. Nella palestra non volava una mosca. Gli accompagnatori ascoltavano da bordo campo, anche loro muti e composti, l’aria era impregnata del sudore di una dozzina di adolescenti affaticati. Angeretti, col fare del condottiero, ci disse quanto fosse orgoglioso della stagione fin lì disputata. Di come all’inizio non vedesse grandi prospettive in quell’armata brancaleone, ma di come presto avesse trovato potenzialità nascoste nel gruppo. Poi ci disse che era arrivato il responso del sorteggio per le semifinali del campionato allievi regionale, e che la sorte non era stata benigna, abbinandoci all’Ignis Varese, con la beffa di dover giocare la partita sul loro campo, domenica, prima dell’incontro di serie A, perciò di fronte a migliaia di persone, cosa mica abituale per dei tredicenni. Poi ci disse che a questo punto noi, oltre al senso del dovere, dovevamo far nostro anche lo spirito dell’audacia, consapevoli di avere di fronte un avversario più forte e certamente convinto di stritolarci, con tutti quei ragazzoni sopra i due metri sicuri di sovrastarci, ma ancora inesperti, lenti e facili da disorientare. Il nostro impegno doveva essere quello della serietà e della dignità, nell’affrontare la partita con tutta la concentrazione necessaria. Ma soprattutto, ciliegina sulla torta, lui ora ci chiedeva qualcosa di speciale: l’arte della sorpresa, che doveva prendere la forma di un’aggressività senza sosta, di una pressione guerrigliera, di una partita giocata da un gruppo d’inafferrabili spiriti speciali. L’effetto del sermone fu straordinario. Quando vennero sciolte le file e ci avviammo negli spogliatoi, il meccanismo a orologeria che il coach aveva sapientemente innescato, stava già cominciando a ticchettare.

(2. continua)

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