quinta parte

IL MIO PRIMO SCUDETTO

Il campionato vinto senza vincerlo davvero e il campionato perso quando andava vinto

Poi la fine dell’incanto per eccesso di desiderio di libertà.

Fino alla scelta di mio figlio

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(Stefano Pistolini – Il Foglio)
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Riassunto: dopo Woodstock e la discesa sulla luna, un acerbo giocatorino di basket nella Milano fine Sessanta, è dilaniato tra il far parte di una squadra con troppe ambizioni e il mollare lo sport per scoprire la vita vera.

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Campioni per caso. Cronistoria di come un gruppo di ragazzi che fecero parte di una vogliosa squadretta di pallacanestro, due anni dopo si trovarono loro malgrado proiettati agli onori delle cronache nazionali. In sostanza, noi giocatori “terrestri”, senza neppure la mobilitazione dei campioni della classe del ’55, quelli che erano stati appena acquistati e già venivano aggregati alla prima squadra, facemmo lo stesso un boccone del campionato regionale. Giocammo tutti bene, anch’io, nonostante i problemi scolastici adesso mi torturassero e tutto sembrasse sempre un po’ sfocato, come se l’armonia disertasse quell’età. Lo stimolo di saperci membri di una squadra fortissima, predestinata, ci dette le giuste motivazioni. Sgobbavamo, e anche le frequentazioni al di fuori della palestra col mio amico Sergio s’erano limitate. Sembrava naturale a tutti che quella stagione fosse devoluta alla missione di vincere un campionato che ci apparteneva per manifesta superiorità, anche se era solo il frutto della formidabile campagna acquisti messa in atto dalla società. In ogni caso, quando arrivò il momento delle finali regionali, senza particolari annunci, ma come se fosse naturale, a noi tutti venne chiesto di scansarci più in là, per fare posto alla discesa in campo dei campioni veri. Loro vennero e concessero limitata confidenza – perché così vanno le cose nello sport, le gerarchie sono violente e implacabili, si riscrive l’ordine sociale. Vennero e portarono a termine l’opera con freddezza chirurgica, lasciando a noi gli avanzi. Erano loro a giocare veramente le partite, a vincerle nel giro di un tempo soltanto e poi a essere richiamati in panchina non appena il loro contributo non era più necessario. A noi toccava il compito di concludere l’opera e lo facevamo efficacemente. Le finali regionali vennero vinte senza difficoltà. Neppure il Simmenthal, tradizionale rivale insormontabile, questa volta oppose resistenza a quella squadra superiore. Così si piombò come falchi sulle finali nazionali di Livorno, con l’etichetta dei predestinati, dei favoritissimi, di quelli che non potevano sbagliare. E le cose andarono esattamente così: neppure volonterose concorrenti, come la Virtus Bologna o i gialloneri brindisini, poterono nulla contro quel quintetto che giocava in un’imperturbabile solitudine, dove tutti i risultati erano già conseguiti. Il risultato fu che, per merito dei nostri extraterrestri, noi ragazzi qualsiasi della Milano borghese ci ritrovammo campioni d’Italia di categoria, titolo al quale, per il nostro valore, sinceramente non potevamo aspirare. Fu una sensazione strana. C’era un senso di estraneità, d’imbarazzo, ma lo si teneva nascosto, perché la vera storia in fondo la sapevamo soltanto noi, e qual è il ragazzo che non sogni d’arrivare a un risultato così eclatante? Io minimizzavo. Ritenevo che quell’esito straordinario fosse il coronamento d’una vicenda che andava naturalmente concludendosi. Ed essendo arrivato così in fretta così in alto, mi ritrovavo adesso a rifiutare il valore di quell’esperienza e a mortificare la nobiltà dell’impresa di cui ero pur stato parte legittima, tanto mi sembravano più importanti altre cose, come il vivere una vita libera, senza gli orari degli allenamenti, o il viaggiare per il mondo, o lo scrivere inattuali righe di rimescolamento interiore. La contraddizione era flagrante e vedevo che Sergio, il mio unico confidente, provava esattamente i medesimi turbamenti. Lui addirittura elaborava piani clamorosi, voleva andare a vivere con la ragazza che amava, progettava un trasferimento all’estero, coi suoi amici fumettisti covava l’idea di un giornale alternativo, che infine sarebbe nato davvero, sarebbe stato effi-mero e bellissimo e si sarebbe chiamato “Get Ready”. La cosa surreale era che ci ritrovavamo nell’anticamera della carriera sportiva, con tutto ciò che questo comportava, ma eravamo già altrove con la testa. A confondere ancora più le acque arrivò il premio alla squadra per il risultato conseguito: un viaggio di un mese, tutti insieme, in Danimarca e in Svezia, con la scusa di disputare un paio di amichevoli di nessuna importanza. Il bello è che, di nuovo, le stelle della squadra, quelli che ci avevano permesso di arrivare fino in cima, non parteciparono alla spedizione, impegnati com’erano a rispondere alle convocazioni delle nazionali giovanili. Partimmo noi, i reduci del Lemonsoda, qualche membro aggiunto, un viceallenatore e il solito Ceresa, lo scout accompagnatore che tutti oramai trattavamo come uno zio. E fu un viaggio fantastico, una rivelazione, una crescita. Partimmo in treno una sera dalla Stazione Centrale, vivemmo per venti giorni a Copenaghen in una villa di periferia affittata per l’occasione, tutti i pomeriggi andavamo al Tivoli, il parco dove la città, soprattutto quella dei giovani, si ritrovava nelle sere d’estate, per giocare, ballare, mangiare, amoreggiare. Non si dormiva, ciascuno inseguiva le proprie falene, le notti non finivano mai. Poi ci spostammo a Stoccolma, impressionati da come quella città fosse più scostante della dolce Copenaghen, che ci aveva accolto affettuosamente. Conservo il fotogramma di una partita giocata lassù in Svezia in un campo all’aperto, una mattina presto, assonnati dagli stravizi della sera prima, contro una rappresentativa di volitivi giovani svedesi. Perdemmo distrattamente, ma l’importante era solo di rimettersi in borghese e tornare a camminare per quella città vuota, studiare le ragazze che ci sorridevano incuriosite, meditare teoriche peripezie sessuali.

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La stagione successiva che si aprì col consueto raduno settembrino ed era “l’anno dopo” a tutti gli effetti. I giocatori su cui la società puntava, che erano quelli che ci avevano permesso di vincere il titolo, erano stati tutti spostati nell’organico della squadra juniores e a noi restava l’onere di difendere uno scudetto che non avevamo vinto. La squadra era buona ma non eccezionale e la temperatura psicologica era bassa. Giocammo un torneo appena discreto, di cui ho ricordi vaghi. Meglio rammento i pomeriggi in cui evadevo dalla routine scuola-allenamenti e traversavo la città in autobus fino a casa di Sergio, che era sempre solo, perché i suoi genitori lavoravano. Allora sembrava ci fosse tempo per fare tutto: ascoltare dischi psichedelici, sfogliare riviste, uscire per un giro nel parco. Con noi c’erano sempre Luciano e Silvio, che da suoi amici ora erano diventati anche amici miei, e non sapevano nulla di basket ma mi facevano leggere Crumb. Di pallacanestro si parlava sempre più raramente, se io accennavo alla squadra o alle partite Sergio mi rivolgeva un’alzata di spalle e si distraeva. Per lui era già finita e ciò non faceva che accelerare il mio disamore.

A primavera comunque il torneo volgeva al termine: entrambi eravamo trattati con supponenza dagli allenatori, che avevano capito la solfa e non puntavano più su di noi. E’ una specie di selezione naturale: restano i bravi e gli ostinati, gli altri si disperdono. Ad aprile un dirigente mi prese da parte e mi disse che la società voleva spedire alcuni delle giovanili a fare esperienza nelle serie minori e che per me c’era un’offerta a Vigevano, in serie B, occasione più che buona. Voleva sapere se ero pronto a sottoscrivere l’accordo, mi disse che c’era anche qualche soldo, abbastanza da incoraggiarmi a fare il pendolare della pallacanestro. Risposi che ci volevo pensare, che uno zio che lavorava in America m’offriva di trasferirmi da lui, presi tempo. In cuor mio ormai erano più i dubbi che le certezze, quanto a fare lo sportivo a tempo pieno.

Poi arrivò il giorno fatale. Era sabato, dopo pranzo, maggio. Il giorno dopo, la mattina, dovevamo giocare ad Arcore, dal momento che la nostra squadra s’era incagliata in uno spareggio con la squadretta locale. Se volevamo proseguire verso le finali, dovevamo vincere, ed era plausibile che si sarebbe vinto. Ma quel pomeriggio, quando arrivai a casa di Sergio, come al solito non era di basket che si discuteva. Lui e Silvio avevano un’aria particolarmente misteriosa, carbonara, ed esitavano a mettermi a parte del segreto. Alla fine la storia venne fuori: Silvio era in possesso di una merce rara e pericolosa, due pasticchette arancioni di acido lisergico, della qualità chiamata “orange sunshine”, mi sussurrarono con l’aria dei convertiti. Non sapevano che effetto avrebbero avuto, né quanto sarebbe durato, dal momento che bene o male domani c’era una partita da giocare. Ma la curiosità di provare era troppo forte. Alla fine fu Sergio a decidere: “Ne abbiamo due in tre. Vorrà dire che una se la pappa Silvio, che non ha impegni. Io e te – disse rivolto a me – ce ne facciamo metà per uno, così la assaggiamo ma tra poche ore siamo belli in forma come prima”. Mai decisione fu più improvvida: la mezza pasticchetta fece il suo deflagrante effetto subito. Dopo mezz’ora trascorsa accucciati tra gli altoparlanti dell’impianto ad alta fedeltà, provammo tutti l’irrefrenabile bisogno di uscire e ci perdemmo per i campi dietro casa di Sergio, alla fine di Milano. Silvio, che aveva in corpo il doppio della dose, intratteneva un dialogo personale con fiori e coccinelle. Sergio sorrideva al mondo. Io ero preda dell’ansia. L’acido era forte, più di quanto una psiche immatura e infantile potesse sopportare. Le ore galopparono e quando, in un istante di lucidità, m’accorsi che era sera, corsi via senza salutare, montai sul bus e mi rifeci la strada verso casa ancora in preda alle più assurde allucinazioni. Una volta al cospetto di mamma e papà le cose non migliorarono: ero stonato, disertai la cena, mi chiusi in bagno e mi misi a mollo per un’ora, con la sensazione di essere un delfino, un’orata o un sommergibile. Poi provai a guardare un western in tv, ma mi pareva che i cowboy uscissero dallo schermo per dare la caccia proprio a me, e allora presi la via del letto, dove trascorsi la notte, nella vana attesa che l’effetto finalmente scemasse. Quando al mattino saltai fuori dalle lenzuola, mi convinsi che tutto doveva essere finito, che stavo bene, che era stata una pessima idea da non ripetere e che dovevo sbrigarmi, fare colazione e correre al ritrovo per la trasferta. Al raduno ci arrivai, il viaggio in pullman passò senza incidenti, Sergio lo vedevo seduto in fondo, silenzioso. La cosa che non ci aspettavamo è che l’intera comunità di Arcore si fosse mobilitata per quella partita. Alle 10 di quella domenica dalla luce radente ci ritrovammo in una palestra fredda, piena di gente urlante, intontiti e senza l’ombra di un piano di gioco. Poco a poco la partita che doveva essere una semplice formalità cominciò a complicarsi. Appena messo piede in campo, del resto, io con orrore scoprii che l’effetto della famosa pasticchetta era tutt’altro che concluso. In sostanza stavo giocando una finale in acido, non un comportamento esemplare per una promessa del canestro. E Sergio stava come me: l’ultimo ricordo che conservo di quella vita agonistica è il momento in cui lui mi passa una palla a centro campo. Io ricevo e di colpo m’imbambolo, come se tra le mani avessi un mappamondo, un cocomero, una sfera di cristallo. Arriva uno degli indemoniati brianzoli, mi sfila la palla e scappa in contropiede. Il coach si alza ululando, mi richiama in panchina, io torno a testa bassa, umiliato, e più o meno lì finisce la mia carriera. E finisce anche la corsa della squadra, perché la partita ad Arcore viene alla fine scandalosamente perduta di un punto, 47-46. Siamo eliminati, i campioni in carica estromessi da una formazione oratoriale. Una vergogna.

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A dimostrazione che a tutti gli effetti la pallacanestro ne ha abbastanza di me, un mese dopo, durante un torneo estivo all’aperto, mentre sto giocando distrattamente, cado e mi faccio seriamente male a un ginocchio. Il danno è grosso e, se voglio continuare a giocare, quel che mi aspetta è un calvario di rieducazione. Due giorni dopo l’infortunio vado nella sede della società, assieme a Sergio. Comunichiamo la nostra decisione di lasciare la squadra. Loro la prendono male, convocano l’allenatore, ci fanno il terzo grado, ci dicono che è una scelta senza ritorno, che forse siamo solo stanchi, che il mio ginocchio tornerà a posto, che conviene rimandare qualsiasi decisione. Ma noi siamo decisi come due guasconcel-li che vogliono togliersi un peso e che d’un tratto non ne possono più, ammaliati da un misterioso desiderio di libertà. E così guardandoci con rimprovero ci lasciano andare e ci chiudono la porta dietro le spalle. Noi, un minuto dopo, alla pallacanestro, lo sport che abbiamo amato follemente, non ci pensiamo più. Abbiamo la percezione di avere una gran vita davanti, piena di avventure. Passarla su un rettangolo tra due canestri pare troppo poco. I nostri sogni sono sconfinati e l’infatuazione per i gesti volanti in quei momenti sembra definitivamente svanita.

Alcune note conclusive di questo diario, colpevolmente redatto troppo tardi.

Prima di tutto ho scritto a braccio, forte solo della memoria e dell’intensità con la quale questi ricordi si sono incisi stabilmente e periodicamente riaffiorano. Ho commesso errori, omissioni, slittamenti temporali (lo scudetto Cadetti in effetti è del 71, ma poco interessanti sono le vicende di mezzo), scambi d’identità. Ma sono errori minori, perché c’ero e le cose andarono così, soltanto che rievocandole dopo tanto tempo risultano un tantino ammaccate. Secondo. In realtà non ho mai smesso di amare la pallacanestro. A Roma, vent’anni dopo l’inizio di questa storia, quando avevo ben oltre trent’anni, mi feci convincere a ricominciare a giocare, cosa che non facevo da una vita. Fu divertente e tragico. Disputammo un campionato di ultima categoria, arrivammo ultimi, facemmo comunque partite fantastiche, di cui ne ricordo almeno una, finita in rissa generale, a Torvaianica.

Poi di nuovo più niente, perfino una ritrosia a vedere il basket in tv. Fin quando mio figlio, che adesso ha dieci anni, si dichiarò stufo della scuola calcio e, con mio sbigottimento, si dichiarò interessato al gioco dei canestri. L’ho cominciato a portare, prima casualmente, poi in base a un programma ferreo, al campo di Villa Balestra, e gli ho insegnato i fondamentali. Mi sembra portato. In autunno andrà a giocare coi pulcini, in qualche squadretta dei Parioli. Contestualmente ho ricominciato a comprare riviste di basket. A Natale, a New York, padre e figlio abbiamo trascorso una mattinata carestosissima ma paradisiaca all’Nba Store sulla Quinta Strada. Adesso guardiamo tutte le partite trasmesse in tv, Nba, Ncaa, serie A, ma non il basket femminile. Siamo andati al PalaEur ma in primavera abbiamo frequentato soprattutto le partite delle serie minori, la B2 della Stella Azzurra, della Tiber e della Luiss, che ci piacciono di più per la foga, le passioni, i sentimenti.

Un anno fa mi si è bloccata una spalla. In inglese la chiamano frozen shoulder. Capita, a una certa età. Pigro come sono, l’avrei lasciata com’è, perennemente incriccata. Ma ciò andava contro il progetto di formazione del campioncino in famiglia. Per cui ho affrontato un ciclo massacrante di fisioterapia, perché la spalla tornasse a lavorare. E alla fine è ripartita, alla meno peggio, ma abbastanza per insegnare la corretta impostazione di tiro a mio figlio e il movimento del tagliafuori a rimbalzo.

Infine all’inizio dell’estate, mentre meditavo la stesura di questa memoria, ho fatto una cosa inattesa perfino per me stesso. Sono andato su Internet, ho cercato il sito regionale degli allenatori di basket, ho trovato un numero e ho parlato con un gentile signore, della mia età e coi miei stessi turbamenti. M’ha detto che, se si raggiunge il numero minimo, a settembre ci sarà un corso per allievi allenatori. Con quel patentino in mano potrò allenare i ragazzini del minibasket. Quando ho riattaccato ero commosso. Adesso aspetto l’esame e, se funziona, quest’inverno risento puzza di palestra. Intanto, per passare l’estate, ho comprato un canestro per il giardino della casa al mare. E’ una mezza schifezza cinese, ma con Giovanni continuiamo a tirare. Fino a quando è notte fonda e l’unica luce è quella delle stelle.

(5. fine)

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