quarta parte

LA MIA PRIMA SERIE A

Troppe scoperte assieme: le donne, la musica, il mondo.

Dal campionato svogliato al ritorno della voglia di fare sul campo quel lavoro sporco che i divi lasciavano ai comuni mortali

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(Stefano Pistolini – Il Foglio)

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Riassunto: è solo un anno che il quattordicenne protagonista gioca a basket nella Milano anni Sessanta. Ma ha già conosciuto trionfi, sconfitte e compravendite, approdando in forza a un prestigioso club di serie A.

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I negozi All’Onestà, a Milano li conoscevano tutti. Per chi abita a Roma farò il paragone con il Mas di Piazza Vittorio, grandi magazzini del prezzo minimo, dove la qualità non era eccelsa, ma la convenienza talmente straordinaria da attirare le madri di famiglia più povere, che qui potevano vestire tutti decentemente e perfino con una strizzatina d’occhio alla moda, per quanto i budget fossero miserabili. Il titolare di questa catena così calibrata sullo sforzo collettivo degli anni Sessanta, era il signor Milanaccio che, a latere, evidentemente covava un debole per lo sport dei giganti, se è vero che la squadra che portava quel nome non era solo una società abbinata al suo marchio, bensì una sua vera e propria creatura. Approdata in serie A nella seconda metà degli anni Sessanta, l’All’Onestà s’era rapidamente guadagnata i gradi di rivale cittadina della più titolata Olimpia Milano, all’epoca abbinata alle scatolette Simmenthal. E tutto grazie al generoso portafogli di Milanaccio che aveva portato sotto i colori giallorossi giocatori di primo livello come l’ala Zanatta e il centro Bovone, l’eccellente play Gatti – tutti nazionali – e il forte americano Joe Isaac, vero idolo del Palalido. Con la sua squadra scanzonata e atteggiamenti da guastafeste, l’All’Onestà insomma s’era in breve guadagnata le simpatie di molto pubblico giovanile, soprattutto i bastian contrari stanchi delle consolidate egemonie.

Ai primi di settembre, puntuale, m’arrivò la chiamata del factotum Ceresa che annunciava il raduno per l’avvio delle attività della nuova squadra. La formazione allievi dell’All’Onestà, che per la prima volta si avventurava in questa categoria, sarebbe stata formata dall’ossatura della Lemonsoda con cui avevo giocato il campionato precedente, opportunamente rinforzata. E non fu una sorpresa incontrare nello spartano ingresso della palestra Kolbe di viale Corsica, che per quell’anno sarebbe rimasta la nostra casa, solo quattro dei compagni dell’anno precedente, ovvero Sergio, Antonio, Guido e Tiziano, quelli con cui io completavo il primo quintetto. E già in quel ventoso primo incontro settembrino facemmo la conoscenza dei nuovi arrivati, i famosi “rinforzi”. Perché adesso anche noi avevamo i nostri veri lunghi. Uno si chiamava Filippo, sopra i due metri, spalle larghe, corpo forte, modi gentili accentuati da un paio d’inseparabili occhiali da vero miope. E un’anima lunghissima proveniente da fuori Milano, tale Campanaro, a 14 anni già sopra i 205 filiformi centimetri, dalla tecnica primitiva ma destinato a diventare inevitabilmente dominante in un campionato di ragazzini. In più c’erano un nuovo playmaker, Volpe, intelligente e strategico, che avrebbe tolto il posto da titolare al mio adorato Guido, con il brutto effetto di sospingere quest’ultimo a perdere interesse nel gioco, tant’è vero che questo sarà l’ultimo anno in cui giocheremo insieme. E infine, a rafforzare il settore delle ali, ovvero ad alternarsi con me e con il mio amico Sergio nel gioco lungo le linee, arrivava Maurizio Coppolecchia, un metro e 96, capelli neri lisci, gran nasone, una faccia buffa, uno strano tiro parabolato e la predisposizione alla vita spericolata, che me lo farà riconoscere, trent’anni più tardi in televisione, nel sassofonista della band che accompagnava il comico Paolo Rossi. Quanto all’allenatore, ci venne presentato un tipo che purtroppo neppure sfiorava la carismatica presenza di coach Angeretti, l’uomo che ci aveva accompagnato l’anno prima nell’avventura col Lemonsoda. Clerici, questo il suo nome, era un grassottello dall’aria bonaria, fin troppo prono alle esigenze organizzative di un settore a cui presto la società avrebbe attinto sia per i ricambi che per i realizzi di mercato. In sostanza aveva più l’aria del tutore che del condottiero e per tutto l’anno che ci accompagnò non venne amato da nessuno.

Strano: la squadra oggettivamente era migliorata dall’anno precedente, i mezzi a disposizione erano maggiori, c’era il pullman della società, il preparatore atletico, i ritiri prepartita, le divise eleganti ufficiali e da allenamento, ci regalavano le nuove Converse verdi in camoscio, la scarpa cool del momento. Ma quella squadra non possedeva la chimica di quella che l’aveva preceduta, era slegata, meno convinta e meno convincente. Giocammo un campionato anonimo, ma vincemmo abbastanza partite da guadagnarci l’accesso a uno spareggio per le finali regionali. E anch’io andavo a corrente alternata. Il mio legame con Sergio ormai era profondo, inseparabili, dentro e fuori dal campo. Il viaggio in Inghilterra dell’estate era stata un’esperienza eccezionale, dormendo sotto gli alberi a St. James Park, mettendo per la prima volta piede al Marquee Club, vedendo Arlo Guthrie al Crystal Palace, comprando camicie indiane a Camden. Conoscendo finalmente le ragazze che s’incuriosivano al cospetto di quel trio composto da due giganti e dall’amico Silvio, che partì con noi e che non arrivava al metro e sessanta, ma coi capelli lunghi fino al culo. Del resto anche l’educazione sentimentale in estate era decollata grazie alla pallacanestro, dopo l’ultima partita del torneo estivo di Sondrio, quando dei ragazzi del posto ci avevano portato a una festa e io conclusi la serata, per la prima volta nella vita, con una signorina che aveva cinque anni più di me, ma che, assieme alle amiche, sembrava irresistibilmente attratta dalle ali alte, dal momento che nella stanza accanto Sergio faceva la stessa mia fine. Insomma il ritorno a Milano, l’avvicinarsi del nuovo anno di scuola dai severi gesuiti, l’inizio dell’attività sportiva, tutto il sistema mi accerchiava un po’ troppo. E troppe erano le scoperte che stavo facendo tutte insieme, troppi i rumori di fondo, i richiami, i segnali spuri. Un giorno fantasticavo alla biblioteca Sormani con Sergio, ripescando le cronache del Corriere della Sera che raccontavano la visita a Milano di un Jack Kerouac ubriaco perso. E il giorno dopo mi ritrovavo a fungere da cavia ai test negli allenamenti con utilizzo dei pesi che la società conduceva su noi ragazzi, un’idea folle rivista oggi, se si pensa a quanto siano gracili le giunture di questi corpi sovrasviluppati, per pensare di rinforzarli muscolarmente appendendogli piombo alle caviglie. Nella mia testa si stava sviluppando quel dualismo impossibile che distingue l’atleta puro, dal praticante amatoriale. Troppe distrazioni, troppe deviazioni, il basket che m’aveva improvvisamente infiammato e aveva dato senso alle mie giornate abuliche, già non bastava più. Fu proprio sotto queste insegne di discontinuità che giocai la prima stagione con la maglia dell’All’Onestà. Le partite in casa le facevamo a via Kolbe oppure come anteprima della serie A, al Palalido, e anche questa passerella produceva effetti strani sulle nostre testoline deboli. Facevamo i divetti, in particolare la lega a tre che io e Sergio avevamo stabilito con Coppolecchia, che era uno molto più pazzo e trasgressivo di noi. Lui si accendeva sigarette e andava pazzo per i Led Zeppelin. Insieme lumavamo gli spalti in cerca delle dozzine di Carol André sparse qua e là, ma poi sul campo spesso era-vamo confusi e inconcludenti. Di mio, alla fine, riscattai la stagione nello spareggio di fine campionato, di fronte alla squadra celeste-rossa della Candy Brugherio, che in panchina aveva un’altra futura stella del basket, il grande Valerio Bianchini che una dozzina d’anni più tardi cucirà l’unico scudetto della storia sulla maglia di una squadra romana. Quella sera, giocai finalmente una partita decente, dopo una serie di esibizioni poco gratificanti, che mi erano quasi costate il posto in quintetto base. Senza che ce ne fossero le avvisaglie, sfoderai invece una bella prestazione, che sorprese il coach con il quale avevo poco feeling, e sorprese soprattutto me stesso. Il tutto fruttò una vittoria chiara e ci avviò di nuovo a quelle finali regionali dove fin dal primo turno ci aspettava il Simmenthal Milano che divenne così, per il secondo anno in fila il nostro carnefice, con una squadra superiore in tutto, evoluzione del gioco collettivo, talento dei singoli e per il “pensiero” cestistico che incarnava.

Io ero già ripiombato nell’indolenza, giocai una partita incolore e chiusi mestamente quella stagione anonima, nella quale lo stimolo di far parte di un’organizzazione di serie A era stata mal assorbita dalla caratterialità di alcuni di noi e aveva generato un ambiente freddo, dove alla partecipazione s’era sostituita la routine.

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Le vacanze le passai di nuovo con Sergio. Per lunghi mesi di pallacanestro non parlammo mai e ci dedicammo invece alla scoperta del mondo. Arrivammo a un festival rock in Inghilterra, campeggiammo all’isola d’Elba con gli amici, mi accompagnò in Versilia a far visita alla ragazza che mi piaceva. In autostop partecipammo a concerti e raduni, e passammo ore splendide a scoprire “Atom Heart Mother” e a esplorare i prati milanesi dietro piazza Gabrio Rosa. A settembre infine rispuntò la convocazione dell’All’Onestà e ci colse come di sorpresa, impreparati, lui nel pieno di una love story, io confuso tra polemiche familiari, sirene americane, profumi di Woodstock echi di Bel Air, la crisi della controcultura, la scoperta della Luna, i Beatles che si scioglievano, il nuovo decennio dietro l’angolo, le vibrazioni di Altamont, i resoconti della Summer of Love, le escursioni all’Argentario.

Ci ripresentammo al raduno con l’aria distratta di chi aveva vissuto molto, forse troppo. Ma le novità ci misero davanti a una realtà inattesa. Innanzitutto la squadra aveva cambiato nome, con uno sponsor esterno che rimpinguava le casse, e ora si chiamava Mobilquattro. In secondo luogo, nel settore giovanile si stavano facendo le cose in grande: la societa aveva varato una politica di reclutamento in tutto il centro-nord, con tanto di pensionato dove i ragazzi forestieri venivano ospitati, sorvegliati nello studio e avviati alla carriera sportiva. Subito ci vennero presentati i nuovi acquisti e l’impressione fu enorme. Il primo era Lino Mascellaro, un vicentino dalla pesante inflessione dialettale, con un corpaccione di due metri che muoveva con grazia e una testa di capelli ricci dove l’unico pensiero che abitava era quello di giocare buona pallacanestro. Bastava vederlo in un paio di azioni per avere la certezza d’essere al cospetto di un campione predestinato e non capirò mai – esisterà una motivazione segreta – perché la sua futura carriera non gli riserverà veri onori, ma solo una smunta sopravvivenza in serie B. Con Mascellaro ci venne presentato Sergio Borlenghi, di Reggio Emilia, centro non altissimo dal momento che non arrivava ai due metri, ma enorme dal punto di vista fisico. Non era rapido, dato il peso che si trascinava dietro, ma aveva già maturato una formidabile tecnica con la palla tra le mani, e sotto canestro, diventava sgusciante, abile, immarcabile. Lui la sua brava carriera in serie A negli anni successivi l’avrebbe trovata, ma verso fine carriera la morte se lo sarebbe portato via d’improvviso per un brutto male, come appresi casualmente una ventina d’anni più tardi, da un trafiletto della Gazzetta dello Sport. Le sorprese non erano finite: ci venne presentato un buffo bamboccione proveniente dalla provincia, che non arrivava al metro e 85, fisicamente era meno che normodotato, la faccia gommosa sembrava quella di un frugoletto appena svezzato. Si chiamava Perego, non so quale sarà il suo futuro agonistico dopo la nostra breve frequentazione, ma era il più terrificante cecchino visto in circolazione sui campi del basket giovanile, un castigo, un terminatore, il boia di qualsiasi difesa, il tutto senza mai perdere quell’innocente espressione d’inconsapevolezza. Per concludere era stato acquisito anche un nuovo playmaker di cui già avevo sentito parlare, uno già nel giro delle Nazionali giovanili, un grande acqui-sto. Si chiamava Benatti, regista di classe pura, destinato presto a fare il grande salto in serie A, dove metterà insieme una carriera di primo piano, con tanto di approdo in maglia azzurra. Insomma il concetto era chiaro: ora si faceva sul serio. Il nostro organico originale era stato decimato, e per i superstiti l’aspirazione era quella di guadagnare un po’ di minuti in campo, partecipando ad allenamenti durissimi e sottostando alla gestione di coach Petazzi, un uomo ambizioso, con l’obiettivo immediato di puntare alle finali nazionali della categoria cadetti della quale ora entravamo a far parte. Cambiava tutto: tra l’altro la squadra, quando le circostanze agonistiche lo avessero richiesto, sarebbe stata rinforzata da altri due ottimi giocatori provenienti dall’annata più vecchia della nostra, Giroldi e Gergati – che tutti gli appassionati impareranno a conoscere sui campi della serie A – già aggregati alla formazione juniores, per quanto solo quindicenni. Io, Sergio, Coppolecchia, Tiziano, Antonio eravamo solo i rincalzi di questa corazzata su cui ci trovavamo imbarcati quasi per caso e attorno alla quale si muovevano interessi importanti. Anche il campo di allenamento era cambiato: non più la modesta palestra di via Kolbe, ma gli spazi ariosi e i campi multipli dell’impianto Social Osa, a due passi dalla Stazione Garibaldi, mentre le partite le disputavamo al Palalido, già allora tempio supremo del basket milanese. Le sedute di preparazione si tenevano dalle 6 alle 8, quattro giorni alla settimana ed erano le 9 di sera quando questa torma di giganti con la borsa nera dell’attrezzatura e gli immancabili maxicappotti blu, faceva la sua rumorosa apparizione sui marciapiedi della metropolitana linea verde, branco di extraterrestri ipersviluppati, pochi argomenti ma voci tonanti. In sostanza, comunque, successe che il gusto della sfida ci riafferrò: producendo uno sforzo eccezionale, impegnandoci quanto si può a quell’età, mettendoci alla prova, come predicavano quotidianamente l’allenatore e i suoi assistenti, io e Sergio, come si dice in gergo, “facemmo la squadra”, ovvero entrammo a pieno titolo a farne parte, nel ruolo di rincalzi ma ampiamente utilizzati perché, come capimmo presto, quei nuovi formidabili acquisti erano talmente forti da essere già annessi alla categoria superiore degli juniores, lasciando ai poveri mortali il compito di sbrigare l’ordinaria amministrazione, portando a casa, senza soverchie difficoltà, la vittoria nel torneo regionale, da imbattuti, e maramaldeggiando su campi di provincia dove divetti generazionali come Mascellaro, Borlenghi e Benatti neppure volevano sporcarsi le scarpe.

(4 – continua)

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