terza parte

BUIO A META’ CAMPO

La mia prima vittoria miracolosa, il mio primo incanto interrotto e la mia prima espulsione per aver spento la luce a tutto il palazzetto dello sport.

Poi la voglia di fuga, verso Londra

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(Stefano Pistolini – Il Foglio)

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Riassunto: La folgorante carriera dell’eroe nella pallacanestro giovanile milanese fine anni Sessanta approda al giorno della partita decisiva.

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Il sabato prima della semifinale regionale allievi con l’Ignis, nel pomeriggio, per la prima volta esco con Sergio Dell’Anna, il compagno di squadra col quale ho stretto un’amicizia immediata. Ci vediamo in Duomo e poi mi lascio trascinare da lui in un tour pieno di rivela-zioni. Prima alla Milano Libri di Piazza della Scala, luogo deputato che i ragazzi di Milano hanno imparato a frequentare per scoprire l’America, i suoi segreti, le sue voci dissonanti. Là dentro, al piano sotterraneo, ci sono tanti libri in inglese, autori che ho sentito solo nominare ma che m’incuriosiscono da pazzi, come Jerry Rubin, Abbie Hoffman, c’è un meravi-glioso libro d’istantanee degli eroi della Beat Generation e io vado in visibilio perché in quello stesso periodo sto leggendo “Sulla Strada” e adesso, qui, posso vedere la vera faccia di Neal Cassady e mi appare bellissimo, con quei lineamenti da eroe cinematografico e bellissima anche la sua Carolyn. Poi andiamo alle Messaggerie Musicali, facciamo la fila per avere degli album da ascoltare nelle cabine con le cuffie, peschiamo Neil Young e poi questa strana band numerosa che ha appena pubblicato un disco con un leone disegnato sulla copertina e porta il nome del suo chitarrista, Santana. Sergio racconta storie divertenti, mi confida d’avere un debole per le donne più grandi e a un certo punto si unisce a noi un suo amico, Luciano, che fa il disegnatore e sta progettando un viaggio in oriente. Torno a casa contento. Domani c’è la grande partita, ma dormo sodo e senza i soliti, continui risvegli. Mi alzo riposato, focalizzato. So che mio padre verrà a vedere l’incontro, più tardi con la sua macchina. Vado al punto di raduno dove già ci aspetta il pullman. La tensione si taglia col coltello e trovo nove compagni con la faccia uguale alla mia. Taccio per non provocare i superstiziosi, ma ho la sensazione che succederà qualcosa di importante.

La storia della gran presa di Varese è una delle mie preferite, perché ricorda il resumé d’una battaglia in cui un esercito infinitamente inferiore ma in assoluto stato di grazia fa polpette di un armata apparentemente invincibile, stanandola fin dentro casa sua. Quella partita della nostra Lemonsoda Milano con l’Ignis è uno dei più gioiosi massacri a cui abbia assistito e partecipato e il bello è che tutto ciò accade dopo una giornata di tensione e di emozioni, col viaggio in pullman durante il quale non parla nessuno, tutti se ne stanno accucciati a guardare fuori dai finestrini, mentre il coach va su e giù, a misurare che la temperatura non cali. Poi c’è il pranzo, in un ristorante anonimo vicino al Palasport, dove non si mangia niente, tutti si astengono, perfino forchette leggendarie come Guido o le riserve, che questa volta condividono il pathos con quelli che hanno maggiori responsabilità. Poi c’è l’arrivo nell’arena già mezza piena, con quelle belle luci, gli spogliatoi di lusso, il pubblico sfaccendato delle tre e mezza che si mette a fare il tifo per una partita di ragazzi, allorché percepisce la tensione della posta in gioco. C’è quella squadra avversaria dalle splendide divise gialloblu, le tute lucenti, le scarpe americane di ultima generazione, in camoscio. Hanno una fila di torri dalle spalle a stampella, che durante il riscaldamento ci osservano con l’apatia di chi si accinge a eseguire un compitino di routine. Ma non appena risuona il fischio d’inizio, la nostra frenesia esplode e quella che va in scena è una caccia all’uomo, ben oltre le possibilità fisiche e certamente al di sopra della nostra coscienza. Vinciamo di tanto, ma è il modo in cui si vola a essere memorabile: nessuno si ferma o rallenta, dal primo all’ultimo minuto, nell’intervallo restiamo tutti muti per la paura di rompere l’incantesimo, perfino il coach è emozionato, stavolta parla a voce bassa, dice solo le cose essenziali, lo sa che tutto è segnato, tutto condiviso, che il solco è scavato. A fine partita siamo ancora talmente carichi che neppure ci abbracciamo, lasciamo gli avversari annichiliti, incapaci di recriminare. Raggiungiamo gli spogliatoi di corsa e là stramazziamo tutti. Resto un’ora seduto sotto la doccia, mi tira fuori dall’acqua Ceresa che sono mezzo addormentato. C’è commozione diffusa nello spogliatoio, parrebbe quasi che si sia perduto e non che si sia appena fatta un’impresa magnifica. Sul pullman che ci riporta a Milano finalmente la tensione si scioglie, si comincia a ridere, quasi che per mezza giornata si sia stati più adulti della nostra età. Il coach siede un attimo al mio fianco, parla con una voce confidenziale che non gli ho mai sentito: “Bravi, vedervi è stata una soddisfazione”. Ci separiamo neppure fossimo tornati da un satori collettivo. E in un certo senso è così: abbiamo messo alla prova la nostra stessa natura e abbiamo fatto un salto così in alto da vedere un pezzo del futuro, riatterrando giù più grandi di quando si era decollati. I miei hanno visto la partita e mi aspettano sotto casa compunti. Passiamo la sera mangiando la pizza a piazzale Siena.

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Alla finale regionale, quella che manda verso il sogno speciale delle finali nazionali, mancano sei giorni e una sola partita. L’avversario è quello prevedibile, quello che fa più paura, quello che adesso sa della nostra pazza impresa e che baderà a che non si ripeta. Appuntamento sabato al Palalido di Milano, con le scarpette rosse del Simmenthal. Ma quando martedì ci ritroviamo per l’allenamento, è co-me se sia chiaro a tutti che l’ultimo ostacolo è quello impossibile. Perfino un cocciuto sognatore come il nostro coach raggiunge presto la consapevolezza dell’incanto che s’è rotto. In palestra ci presentiamo stanchi, pigri, ammaccati. Si è sgretolata la convinzione, sono andate via le forze. Ce ne rendiamo conto e le sessioni di preparazione prima dell’incontro fatale scivolano via in una malinconica apatia. Sabato la partita è persa ancora prima di cominciare e, per la prima volta nella mia acerba carriera sportiva, capisco che ci sono casi in cui nulla può modificare il corso di una storia già scritta. La sera prima dell’incontro facciamo un allenamento leggero, solo a base di tiro e di nuovo, a fine lavoro, il coach ci raduna a centrocampo. Ci dice che il medico della squadra ha deciso che Antonio non potrà giocare per un problema muscolare e quindi il quintetto perde uno dei suoi pezzi. Anche Sergio ha un ginocchio gonfio e potrà essere usato col contagocce. Angeretti parla con tono grave e calmo. Dice che siamo arrivati in riserva a quel grande appuntamento, che la squadra è sotto stress, che nessuno s’è dimenticato di quanto abbiamo fatto solo cinque giorni prima. Ma che adesso ci vorrebbe tutto un altro stato d’animo e un altro slancio per superare quest’ultimo ostacolo, alto e senza più neppure il fattore sorpresa. “Cercheranno di finirci subito e dobbiamo provare a impedirglielo, questa volta usando la calma anziché il disordine organizzato che abbiamo provocato a Varese. Dobbiamo rallentare e praticamente non sbagliare mai”. Poi ci ringrazia e ci spedisce sotto la doccia. Appuntamento fuori dal Palalido all’una del giorno dopo. Questa volta la sera prima della partita sono agitato, non trovo pace. Alla fine telefono a Livio, il mio primo compagno di gioco, sul cemento del Leone XIII, col quale, da quando l’avventura al Lemonsoda è cominciata, ho allentato i rapporti, troppo preso come sono e anche perché lui ha masticato amaro per come sono andate le cose – e chi può dargli torto? L’assenza in quella famosa partita del destino con gli americani, l’offerta che m’è caduta addosso, la chance di entrare nel gioco vero, sono tutte cose che popolavano i suoi sogni più dei miei. All’inizio al telefono è un po’ laconico mentre gli dico della partita del giorno dopo e della formidabile vittoria della domenica prima. Poi, poco a poco, si scioglie, comincia a fare domande dirette, a farsi raccontare particolari da specialisti, com’erano i giocatori dell’Ignis, com’erano gli spogliatoi del palasport, come ci si trovava su quel parquet. Mi dice che ora sta portando avanti un progetto nuovo, sta riuscendo a convincere la direzione della scuola ad assumere un coach per la prossima stagione e a iscrivere una formazione del Leone XIII al campionato allievi e mi elenca quelli che secondo lui dovrebbero giocare. Poi s’interrompe, forse gli scoccia non poter dire ciò che pensa, ovvero che secondo lui il mio posto sarebbe in quella squadra studentesca, a farmi le ossa, e non in una delle migliori squadre d’Italia, neppure fossi un piccolo fenomeno, perché se c’è uno che sa quanto io sia un principiante è proprio lui. Poi però si riscuote, dice che domani verrà a vedere la partita, mi fa gli auguri. “Mi sa che sarà un massacro…”, concludo io. “Non ti preoccupare. Avete già fatto un miracolo”, risponde con aria navigata.

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Sabato arrivo fuori dal Palalido mezz’ora abbondante prima del raduno e un minuto dopo anche Sergio spunta dalle scale della metropolitana di Lotto. Il tempo è grigio e piovoso e ci rifugiamo in un bar a massacrarci di flipper fino all’ora convenuta. Stare insieme fa bene sia a me sia a lui, così arriviamo più rilassati, ma di nuovo ci troviamo di fronte all’atmosfera plumbea collettiva della sera prima. Troppa responsabilità: e improvvisare, anche nello sport dei ragazzini, è impossibile. Entriamo, ci cambiamo lentamente, i dirigenti hanno fatto le cose in grande e questa volta il medico è accompagnato addirittura da un massaggiatore e alcuni di noi possono usufruire per la prima volta di un passaggio dal lettino magico. Poi entriamo in campo alla spicciolata per il riscaldamento. Sugli spalti ci sono un paio di centinaia di sostenitori dei nostri avversari. Che invece si fanno attendere dieci minuti prima di fare la loro apparizione, arrivando tutti di corsa, con le loro sfavillanti tute rosse e inaugurando subito una travolgente ruota condita di fragorose schiacciate.

La partita, poi, va proprio come tutti si aspettano, senza sorprese. Loro sono forti, determinati, decisi. Hanno tutta l’aria di interpretare il match come un’altra normale tappa di avvicinamento ai Nazionali. Vanno avanti subito, a metà primo tempo hanno una dozzina di punti di vantaggio, all’intervallo una ventina. Noi sembriamo condizionati, è tutta una questione di timore reverenziale. Tiziano sbaglia tiri a raffica e si lamenta in continuazione, Sergio gioca cinque minuti e torna in panchina zoppicando, Guido si fa soffiare un paio di palloni e finisce per rimirare l’avversario che da solo se ne va a segnare in contropiede. Io, da novellino, faccio a sportellate per tutta la prima parte con uno a cui rendo dieci centimetri e che ha il vizio d’appendersi ai miei lombi ogni volta che siamo in attacco. Un paio di volte me lo scollo di dosso, gli allungo una gomitata allo sterno, rimedio falli in attacco e lui prosegue imperterrito. Quando all’inizio del secondo tempo quello ci rifà, io gli mollo una micidiale culata che lo sbatte per terra, dove prende a dibattersi neppure gli avessero sparato. L’arbitro mi viene sotto il naso, nitrisce e mi fischia l’ennesimo fallo. Io chiedo se per caso s’è accorto che sto giocando tutta la partita con quello attaccato addosso come una protesi. Per tutta risposta lo stesso arbitro mi fischia un tecnico. Io m’incavolo e tiro un calcio al muro. Piglio in pieno una presa elettrica, la spacco, provoco un cortocircuito e d’improvviso il palazzetto finisce al buio. Non credo ai miei occhi. La gente fischia, piovono parolacce. Nella penombra vedo l’arbitro che mi caccia dal campo. L’unica espulsione della mia vita. Esco ridendo, neppure fossi Giamburrasca. Guardo un attimo gli spalti e vedo la faccia sbigottita del mio amico Livio, uno che si sarebbe tagliato un braccio per giocare una partita così e mai nella vita si sarebbe permesso un’insubordinazione del genere. Poi incrocio il coach che scuote la testa e m’allunga uno scappellotto sulla testa, ma mica forte e, mi pare di capire, neppure troppo di rimprovero. Le luci si riaccendono mentre metto il sedere sulla panca e i compagni mi rincuorano. “Bel gesto!”, dice Sergio sfottente, poi fa una smorfia quando Angeretti lo chiama per prendere il mio posto, tornando in campo con una gamba sola. Il massacro procede e poi a un certo punto, finalmente si conclude. E con esso la nostra stagione.

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Qualche sera più tardi siamo radunati in un ristorante vicino alla palestra di viale Corsica, per la cena di chiusura dell’attività. Quando è un po’ che siamo là ci rendiamo conto che coach Angeretti non c’è. Chiediamo spiegazioni a Ceresa che capisce che è ora di metterci al corrente delle novità. Prima ci riferisce i complimenti della società per il bel campionato, poi ci informa che ci sono un paio di tornei estivi a cui siamo invitati, uno a Milano sul bel campo all’aperto di via Giusti, dietro il quartiere cinese. E l’altro addirittura a Sondrio, che significherà star fuori casa per tre giorni buoni. Poi fa la faccia di circostanza e ci annuncia la notizia più grossa: l’Oransoda Cantù ha deciso di interrompere l’attività della filiale milanese della Lemonsoda. Perciò quella buffa sigla, giocate le ultime partite d’estate, andrà in pensione. Ma noi non dobbiamo preoccuparci perché l’All’Onestà Milano, ovvero la seconda squadra di serie A in città, nell’ambito del potenziamento del suo settore giovanile, ha sottoscritto un accordo col quale rileva tutta la squadra. “Ci sarà posto per tutti – dice – o almeno me lo auguro”, aggiunge guardando la tovaglia, e i panchinari della squadra già hanno capito che per loro la porta è semichiusa. “Purtroppo coach Angeretti non sarà più il vostro allenatore. Ha altri progetti. Per i tornei d’estate sarete affidati al vice”, conclude con imbarazzo e qui si alza un “nooo” collettivo, neppure fossimo una scolaresca di fronte al divieto di fare casino. Ecco perché non c’è il coach, questa sera. E così, con tutto questo terremoto di novità, la cena si trascina avanti senza entusiasmo e la compagnia si scioglie presto. Io m’avvio per viale Corsica in direzione del centro, assieme a Sergio e Guido, che si stacca non appena vede un tram che s’avvicina. Restiamo in due anime lunghe, a passeggiare nella calma tiepida di quella serata di fine giugno, e di tutto abbiamo voglia di parlare meno che di pallacanestro. Mi racconta che per l’estate ha in mente di fare un viaggio formidabile, in autostop fino a Londra, assieme a un amico che abita sul suo stesso pianerottolo. Mi chiede se voglio andare con loro e io di slancio rispondo di sì, che sarà fantastico, ma che non ho una lira e i miei certamente saranno poco disposti ad aiutarmi, anche se a scuola la mia stiracchiata promozione nel frattempo l’ho rimediata. “Beh, trovati un lavoretto, no? Fai come me. Mio padre mi fa lavorare al distributore di benzina di un suo amico. E i soldi che guadagno basteranno”. Sono cose che non ho ancora scoperto, nei miei miseri 13 anni trascorsi ben protetto. Ad esempio, che posso lavorare, posso guadagnare, posso accettare l’offerta di Gilberto, l’amico simpatico di papà che fa l’inventore e qualche giorno addietro m’ha detto di essere in cerca di un apprendista per un lavoro facile di saldature su circuiti stampati. Ed ecco che già intravedo tutto un mondo possibile, insomma Londra, i club del rock, i negozi di dischi, Portobello Road, le avventure facendo l’autostop sui camion sulle strade della Francia, via Susa e il Monginevro. Saluto Sergio con un abbraccio in quella Milano che adesso mi pare più dolce e giusta. Torno a casa euforico, m’addormento e misteriosamente il basket continua a restare lontano dai sogni di quei giorni e di quelli successivi, che pure dovrebbero appartenergli di diritto.

(3 – continua)

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